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sabato 13 marzo 2010

Tutta un'altra storia 2


Anche quest' altro capitolo che vi propongo l'ho scritto per una Round Robin.

La storia si intitola 'Nel nome del Padre'.

Anche per questa storia vale la stessa cosa de 'La Guardia Reale'.

Non vi posterò la storia per intero perchè tutti i capitoli non mi appartengono.

Se vorrete leggerla vi dirò dove potete trovarla.

Vi lascio alla lettura del capitolo.


Capitolo 4 - Nel nome del Padre


Abbandonai Reims senza guardarmi indietro, ripensando al monaco. La buona sorte mi era stata ancora una volta accanto e, quell’uomo, di grande aiuto. Se mai un giorno fossi riuscito a realizzare il mio obiettivo, l’avrei cercato e ringraziato. Perché era grazie a lui che ora avevo una cammino da intraprendere.
M’avviai, e seguii il corso del fiume Marne, in questo modo avrei evitato di perdermi per i boschi e avrei raggiunto facilmente Parigi. Durante il viaggio pensai a come fare per riuscire ad entrare alla Sorbon.
Per imparare l’arte medica avrei dovuto studiare tanto ma intuivo che la mia nuova situazione mi avrebbe permesso di apprendere molto più di ciò che un normale umano poteva fare.

Era notte quando arrivai nel punto in cui la Marna si riversava nella Senna. Mi spogliai e lavai i vestiti sporchi di polvere e terriccio, e mi cambiai con quelli che avevo portato con me, infilai la camicia di lino e la pesante tunica blu con le braghe marroni, poi mi avvolsi di nuovo nel mantello: non potevo presentarmi alle porte del tempio della dea Ragione impolverato per il lungo viaggio.
Una volta lavati i vestiti li adagiai su un ramo che s’improvvisò stenditoio, e attesi che il vento facesse evaporare le piccole gocce d’acqua dalle fibre dei miei vestiti. Potevo vederle librarsi ad una ad una nell’area cristallina e tersa. Mi sedetti presso la sponda del fiume.

Il vento fresco increspava leggero la superficie. Immersi i piedi nell’acqua osservando come essa s’infrangeva contro la mia pelle dura, così come fa con le pietre: schiumando. Mi abbandonai ai suoni e all’immagine che quella piccola radura regalava ai miei occhi; i miei occhi rosso intenso, che fino ad allora non mi avevano permesso di cogliere e misurare a fondo le bellezze che la natura offriva.
Stormi di uccelli migravano verso il caldo e gli animali del bosco ultimavano la loro scorta per l’inverno vagando alla ricerca di un posto sicuro per concedersi al dolce sonno del letargo.
Anche gli alberi iniziavano a trattenere la loro linfa per l’inverno, lasciando di tanto in tanto cadere le loro foglie, che leggere e infuocate si adagiavano sull’acqua tersa. I rami, scossi dal vento, giocavano birichini turbando l’acqua liscia, creando dei cerchi concentrici che si ampliavano lungo l’alveo del fiume. Le alghe pian piano ricoprivano i rami spezzati degli alberi che giacevano abbandonati sulla riva.
E intanto il sole si avvicinava all’orizzonte, lasciando che gli ultimi raggi illuminassero la mia pelle, creando splendidi riflessi cangianti che andavano dal blu al rosso come per il diamante più raro e prezioso esistente in natura. Perso nei miei ultimi pensieri raccolsi i vestiti ormai asciutti.

Seguii ancora il corso del fiume finché non si gettò nell’abbraccio della Senna. Ero vicino a Parigi. Sapevo che avrei dovuto cacciare, prima di addentrarmi nei vicoli bui e popolosi della città. Mi dissetai a lungo, e quando fui sazio raccolsi i miei miseri averi, la sacca con gli abiti lindi e i pochi spiccioli e m’incamminai. Proseguii lungo il percorso, fino a quando riuscii ad intravedere, di lontano, le porte della città: Parigi.
Tra le strade la gente passeggiava e di tanto in tanto si fermava ad osservare le vetrine delle botteghe.
La Fronda dei principi, l’azione con cui i nobili del regno avevano avversato il sorgere di una nuova elite che non traeva le sue origini dagli antichi feudi, ma dalle nuove ricchezze o dall’acquisizione dei titoli, era da tempo finita. Luigi XIV aveva impugnato lo scettro, togliendo dalle mani del cardinale Mazarino, morto ormai da alcuni anni, la reggenza. Aveva riportato ordine nell’amministrazione dello stato francese e, allo stesso tempo, si era proclamato Mecenate delle arti e delle scienze.
Ero certo: lì avrei potuto incontrare persone in grado di aiutarmi, in grado d’insegnarmi tutto quello che era necessario sapere per diventare un buon medico.

Pensai, con mente lucida, che avrei dovuto cercare un alloggio. Non una locanda, ma un alloggio privato. Ne avrei avuto la necessità, se avessi voluto rimanere a Parigi per il tempo necessario a completare la mia istruzione. Non avrei potuto certo vivere per strada, con il rischio che qualcuno mi riconoscesse, o incappasse nella mia vera natura. Era davvero difficile vivere in questa mia condizione.
Ero il predatore più pericoloso al mondo, ma allo stesso tempo ero preda degli uomini, come mio padre, che cacciavano le creature del male. Dovevo guardarmi le spalle, e il modo migliore per farlo era cercare di mantenere un profilo basso e di comportarmi il più umanamente possibile.
Ci vollero alcune notti per trovare un posto che si addicesse alle mie esigenze: un’abitazione che non fosse molto lontana dalla città e che risultasse abbastanza riparata, magari accanto al bosco così da potermi sfamare a mio piacimento, senza destare sospetti.

Durante i miei giri di ispezione, fuori le mura, sbirciai, attraverso una finestra, una casa che sembrava insolitamente silenziosa. Era poco più di una capanna, in realtà, e dentro, accasciato su un divano e coperto da abiti malconci e da una piccola coperta bucherellata, vidi steso il corpo inerme di un uomo.
L’odore giunse pungente e nauseabondo alle mie narici, molto più che se fossi stato umano: era l’odore della morte che aleggiava sul vecchio nei suoi ultimi istanti di vita. Nessuno si era accorto del suo stato, e giaceva tra i suoi escrementi nel più completo sudiciume. Questo poteva voler dire solo una cosa: era solo, solo senza nessuno che lo aiutasse nei gesti più semplici. Un sentimento di compassione s’impossessò di me. Entrai in quella casa senza preoccuparmi delle sete che sentivo, perché l’odore del suo sangue era coperto da quello della malattia che occupava ogni mio pensiero.
“È permesso? ” chiesi con un tono di voce abbastanza alto da essere udito.
“Chi siete?” rispose l’uomo con un colpo di tosse.
“Sono Monsieur Carlisle Cullen. Perdonatemi per essermi introdotto in casa vostra.”
Dissi avvicinandomi a lui porgendogli un bicchiere con dell’acqua fresca.

“Grazie Monsieur. Ditemi, da dove venite? Il vostro accento mi dice che non siete francese.” Chiese ancora tossendo. “Avete ragione Monsieur. Sono appena arrivato a Parigi, vengo da Londra.” Risposi guardandomi intorno e cercando una coperta che potesse riscaldarlo.
“Dovete aver viaggiato tanto. E ditemi, cosa ci siete venuto a fare a Parigi?” soffiò invitandomi con un cenno a sedermi.
“Sono venuto per imparare l’arte medica.” Accettai il suo invito. Non che mi sentissi stanco, ovvio, ma quel gesto mi ricordava l’umanità che avevo perduto, e chiacchierare con quell’uomo mi faceva sentire di nuovo vivo. In più avevo bisogno di fare pratica con gli umani, se avessi voluto frequentare un istituto.
“Ma che maleducato, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Raymond Sartre. Mi dispiace dover accoglierla in questo modo, ma la mia cattiva salute non mi permette di muovermi.” Disse cercando di alzarsi da quella scomoda posizione.
“Oh non preoccupatevi Monsieur Raymond. Anzi, sono io quello maleducato. Mi sono presentato a casa vostra senza invito; ma vedervi dalla finestra bisognoso di aiuto, mi ha spinto ad entrare senza pensarci.” Mi scusai. Era insolita la sua calma. Non si era preoccupato che potessi essere un malfattore in cerca di denari. La mia curiosità mi spinse a chiedergli il motivo di così tanta cortesia.
“Non avete paura che possa farvi del male Monsieur?” Chiesi tutto d’un fiato.
“Raymond, vi prego. Non ho paura di voi, Carlisle. Se aveste voluto farmi del male, non mi avreste offerto un bicchier d’acqua e non avreste di certo bussato alla mia porta. E poi ormai la morte mi prega ogni giorno di cedere alle sue lusinghe. Se voi vorreste farmi del male, ve ne sarei addirittura grato. Soffrire così è davvero insopportabile. ” Mi rispose con il tono di voce di chi ormai non ha nulla da perdere.
“Capisco. Non voglio farvi del male Raymond. Volevo solo essere utile a qualcuno” dissi. In fondo era così: la mia vocazione di medico derivava anche da questo: voler aiutare gli altri. E tante volte Dio aveva raccomandato ai suoi fedeli di farlo, perciò l’avrei fatto.

“Chiedetemi qualsiasi cosa. Sono a vostra disposizione.” Continuai.
“Carlisle, siete davvero molto gentile. Non vorrei approfittare. Dovete studiare e cercare di realizzare il vostro desiderio” mi disse sicuro, ma il suo sguardo bramava la compagnia di un uomo e anche un ceco si sarebbe accorto che quelle erano solo parole di circostanza.
“Non preoccupatevi Raymond. Ho tanto tempo per studiare e poi è un piacere poter aiutarvi, ed è un buon esercizio” sorrisi, sperando di non risultare troppo invadente.
“Siete davvero gentile Carlisle e io sono davvero troppo malato per rifiutare le vostre cure. Permettetemi però di rendermi utile per voi. Mi farebbe piacere se mi faceste compagnia. Questa casa è abbastanza grande per due persone. Vi va di condividere le vostre giornate con un vecchio malato?” mi chiese a fatica.
“Non vorrei sembrarvi un approfittatore. Vorrei solo rendermi utile.” Dissi cercando di celare la sorpresa a quell’inaspettato invito.
“Non dite sciocchezze Monsieur Carlisle. Sarò felice di essere il vostro primo paziente.” Nei suoi occhi leggevo solo serenità e nessun dubbio.
Avevo avuto un colpo di fortuna, ma la convivenza poteva risultare difficile, visto quello che ero.

Mentre riflettevo sistemai la casa.
Non era un ambiente adatto ad un malato. La polvere giaceva sui mobili da troppo tempo, ne distinguevo senza fatica i minuscoli granelli. L’aria all’esterno era abbastanza fresca, e invitante. Mi sembrò più sano spalancare le finestre e lasciarla entrare poi, per riscaldare l’ambiente, accesi il fuoco e preparai una zuppa: avrebbe fatto bene al mio assistito. Mentre la pignatta ribolliva inondando la stanza di un aroma infausto, ma che sapevo invitante per il mio umano, sistemai il suo letto.
Rivestii il pagliericcio di nuove lenzuola di lino, e scacciai i ragni dal soffitto, pulendo l’ambiente dal marciume intorno. Portai in casa dell’acqua, dal pozzo nel cortile, e impregnando un pezza in essa, lavai il corpo febbrile, e madido di sudore, di monsieur Raymond. Gli infilai una camicia pulita dalle braccia e l’aiutai a spostarsi sul suo giaciglio. Nessuno dei due disse nulla, durante le faccende, e mi sorprese davvero la fiducia che Raymond dimostrava nei miei riguardi. Non me ne capacitavo. Come poteva un uomo fidarsi di un essere spregevole come me? Come poteva non nutrire nessun tipo di timore? Come poteva non avere sospetti?
A rispondere alle mie mute domande fu lo stesso Raymond, mentre gli porgevo la sua zuppa.
“Vi starete chiedendo se ho intuito cosa siete in realtà.” Sussultai, sapeva. “Vedete, Carlisle”, proseguì “ho sempre creduto che al mondo esistesse il male, così come il bene. Quando ho capito cosa eravate, non sono riuscito a classificare la categoria a cui voi apparteneste. Siete una creatura del male, ma vi comportate come un angelo. Non riesco ad avere paura di voi, anzi mi sento al sicuro con voi nella mia stessa casa. Sono felice di passare gli ultimi giorni che mi rimangono in vostra compagnia.” Disse queste brevi e lapidarie frasi senza lasciare che il sorriso abbandonasse le sue labbra.
Non avrei potuto avere fortuna migliore, un essere umano che mi accettava, anzi, di più: mi stava accogliendo.
Lo ringraziai e mi ritirai in una piccola stanza, attigua a quella di Raymond. La casa ora che era linda non appariva più come un rudere, ma si mostrava in tutto il suo splendore. Sarei rimasto lì, volentieri, accanto all’uomo che non mi aveva giudicato.
Ma avrei dovuto porre attenzione, non avrei dovuto permettere alle sete di rovinare tutto e prendere il sopravvento, perciò uscii a caccia durante la notte, e così avrei fatto per tutte le notti a venire.

Il mattino seguente, dopo essermi preso cura di Raymond ed averlo salutato, indossai il mio completo e uscii di casa.
Il mio ospite mi augurò buona fortuna, ed io sorrisi mesto a quell’intimità, a quel padre quasi ritrovato.
Mi diressi verso il centro della città su quella riva sinistra, nel luogo in cui, la Sorbon, mi stava aspettando. Arrivai ben presto nel quartiere latino di Parigi. L’edificio era situato sul lato sinistro della Senna, Place de la Sorbon, e si estendeva su di una piccola area, lungo la via. Il vicolo attiguo era chiamato Coupe – Gueule, e sfociava alle sue estremità in Rue des Deux – Portes. I lavori del Richelieu non avevano modificato il progetto originale di Robert de Sorbon. Sulla via che la circondava, aveva però predisposto degli alloggi per i dottori del collegio e, in fondo alla corte, un refettorio e l’enorme biblioteca.
La cappella, costruita in onore di Sainte Ursule, svettava alta verso il cielo di Parigi con la sua cupola in stile romano, e faceva da palcoscenico alla facciata principale e al giardino. La sobrietà di quell’architettura, lontana da quella francese, rendeva il collegio Sorbon un edificio prestigioso, nello spirito delle facciate italiane.
Le colonne corinzie facevano da guardiane all’entrata principale e i delicati ghirigori collegano i piani dell’edificio. Un grande orologio faceva bella mostra di sé, incorniciando la Scienza e la Verità. Sulla facciata nord, il portico era sovrastato da un’iscrizione latina. “ARMANDUS IOANNES CARD. DUX RICHELIEUS SORBONAE PROVISOR AEDIFICAVIT TEMPLUM A. MDCXLII ”. Ancora estasiato da quella visione, mi resi conto che il tempo passava e che dovevo sbrigarmi per chiedere informazioni.
Il portone era aperto e nel corridoio non vi era nessuno. All’interno, i rosoni scolpiti, vivificavano la perfezione delle linnee delle pietre incastonate lungo gli archi. All’incrocio centrale degli ampi corridoi, si elevavano quattro cappelle indipendenti l’una dall’atra e donavano al tutto un’originale composizione e delizioso gioco di luce ed ombra.

“Posso aiutarvi Monsieur?” una voce alla mie spalle attirò la mia attenzione. Quando mi voltai mi trovai di fronte il monaco che a Reims, mi aveva dato una speranza. Provai a parlare, ma la sorpresa impediva alla voce di uscire.
“Oh!” esclamò sorpreso. “Non pensavo di rincontrarvi così presto. Vedo con piacere che avete seguito le mie indicazioni.”
“Avevate ragione voi Monsieur. Il desiderio di diventare un buon medico è troppo grande e se è vero che ho ancora un’anima, mi impegnerò a fare del bene.” Dissi.
“Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Jean - Baptiste de la Salle. Sapete, anch’io sto studiando qui. La vocazione religiosa mi spinge a conoscere sempre più il disegno divino” disse porgendomi una mano.
“Piacere mio. Il mio nome è Carlisle Cullen. Se mai un giorno diventerò medico lo dovrò solo a voi.” E chiusi la mia mano gelida intorno alla sua. Non si ritrasse, anche lui mi aveva accettato. Anche lui non mi avrebbe giudicato. Questo mi portò a formulare una considerazione: nel mondo potevano coesistere vampiri ed umani.
De la Salle mi accompagnò tra i corridoi di quella che, un secolo dopo, sarebbe diventata la Sorbonne. Mi fece visitare la biblioteca, informandomi di tanto in tanto sulle attività che si tenevano.
Si fece, così, tardi: Raymond mi stava sicuramente aspettando e dovevo ancora andare a caccia. La curiosità di sapere sempre di più, mi aveva fatto dimenticare quanto fosse pericoloso aggirarmi per le strade della città. Salutai Jean - Baptiste e tornai a casa.

Passarono molti mesi da quel giorno. Raymond, nonostante i suoi miglioramenti, si spense per la fatica del vivere e la vecchiaia, durante una delle tante notti che passavo in biblioteca a studiare. Sapevo bene che non sarebbe guarito del tutto e che prima o poi questo sarebbe avvenuto, ma non mi sarei mai perdonato il fatto di averlo lasciato morire da solo. Pochi giorni prima che la morte reclamasse la sua anima, mi donò tutti i suoi averi.
“Carlisle sei stato più devoto di un figlio. Non potrei mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto per me. Dio saprà ricompensarti un giorno. Sappi che per me non sei mai stato un vampiro, ma piuttosto un angelo custode. Tutto ciò che è mio ora è tuo. Quando non ci sarò più, prenditi cura della mia modesta casa e usa tutto ciò che può esserti utile. Figlio mio, abbi cura di stesso e guardati le spalle. Non tutti sapranno riconoscere la tua parte buona e saranno pronti a cacciarti senza scrupoli. Promettimi che non abbandonerai mai la via della bontà.” Mi disse non appena aver finito di mangiare la zuppa che avevo preparato. “Ve lo prometto Raymond.” Risposi. Mi ero affezionato a quell’uomo. Sapeva sempre dirmi la cosa giusta. Mi aveva fatto da padre, anche se ero fisicamente indistruttibile, ero sempre un ragazzo. Era riuscito a conoscermi, lasciandosi alle spalle la mia vera natura. Lui voleva bene a Carlisle in quanto uomo e a volte aveva anche amato e consolato il vampiro che era in me. Aveva sopportato non solo la sua malattia, ma anche la mia sofferenza: a causa di questa mia natura che ancora non riuscivo ad accettare. Soffriva per me, quando la sete mi rendeva intrattabile. Non mi aveva mai allontanato temendo che potessi attaccarlo.
Quando tornai a casa e trovai il suo corpo freddo senza vita, mi maledissi perché non sarei stato nemmeno in grado di piangere la sua morte. Organizzai il funerale e gli diedi degna sepoltura con i pochi averi che mi erano rimasti. L’unica cosa che avrei dovuto fare era mantenere la promessa che quella sera gli feci. Era l’ultimo regalo che potessi donargli.

Cercai un lavoro, per sostenermi. Raymond non era ricco, e i pochi spiccioli che avevo sottratto alla fattoria non mi avrebbero permesso di comprare tutta la costosa carta di cui necessitavo.
Un giorno mi trovai a passare davanti ad una tipografia, entrai in cerca di qualcuno che potesse stamparmi un compendio che mi avrebbe permesso di poter studiare anche a casa, di giorno. Il giovane tipografo quando entrai mi sorrise:
“Mi dica.”
“Vorrei sapere quanto costa avere una stampa di alcuni frammenti degli scoli di Aristotele.”
“Presi dalla biblioteca del collegio?” chiese indicando la Sorbonne che si ergeva a pochi isolati dal negozio.
“Si.”
“Siete uno scienziato?”
“Si.” Risposi fiero.
“Beh” disse, “se voleste farmi un favore per voi lo farò gratis.”
“Gratis?” chiesi incredulo. “Cosa dovrei fare?”
“Qui sono solo, e il lavoro è tanto. Trovare qualcuno che sappia scrivere è assai complicato, e quelli laggiù”, disse indicando il collegio con aria sprezzante, “non ne vogliono sapere. Non ho nulla contro di voi, non fraintendete… ma sono disperato.”
Tanto disperato da non far caso al mio aspetto? Mi chiesi.
“E non avete nulla in contrario che a farlo sia io?” chiesi
“No, assolutamente” disse con un filo di speranza nella voce.
“Niente del mio aspetto vi turba?” chiesi incredulo.
“Siete pallido, come tutti quei topi di biblioteca… forse giusto un po’ di più di quello che passa ora”, disse indicando un mio collega. Era davvero pallido, con occhiaie spesse e nere, a causa del gran studiare.
“E poi” continuò, “avete gli occhi cerchiati di nero, come lui!”
“E null’altro?”
“No signore!”
“Non ho gli occhi rossi?”
“No signore, sono chiari, miele, direi.”
Miele? Avrei dovuto cercare uno specchio il prima possibile. Ma se davvero avevo gli occhi miele le cose per me potevano essere più facili. Sarebbe bastato non esporsi alla luce del sole diretto, e avrei potuto vivere anche di giorno, tra gli uomini.
“D’accordo” accettai felice come non ero da tempo.

Avevo trovato un lavoro che mi avrebbe permesso di procurarmi carta e libri, e sarei stato pagato. In più lavorare in tipografia avrebbe consentito il libero accesso a testi e carta. Avrei avuto denaro per comprare l’unica cosa di cui non potevo fare a meno: vestiti; i libri e la carta sarebbero stati gratuiti.
La fortuna era decisamente dalla mia.
Trovai uno specchio, poco tempo dopo, nella bottega di un sarto, studiai i miei lineamenti duri e pallidi: bellissimi. La differenza con i miei sfocava: non ricordavo più com’ero. E quest’immagine di me mi piacque, a suo modo. Mi piacquero gli occhi, non perché fossero miele, ma perché non più rossi mi davano libero accesso al mondo.
Da quel giorno la mia vita cambiò, e tra le pause dello studio e del lavoro iniziai a frequentare i salotti de la Sorbonne e spesso mi fermavo fino a tarda notte ad ascoltare i dibattiti dei miei colleghi. Avevo conosciuto molti dottori e altri uomini desiderosi di diventare medici come me. Molti di loro sarebbero divenuti sicuramente dei bravi scienziati, famosi e pieni di riconoscimenti, e forse anche io avrei potuto esserlo, ma non era la gloria che cercavo. Io desideravo solo aiutare la gente. Se mai un giorno fosse arrivata la morte, comportandomi da buon fedele, desideravo che Dio ne tenesse conto. Avevo imparato molto.

Ogni giorno scoprivo i benefici che le piante e le radici potevano dare al corpo umano. Imparai a preparare decotti, infusi, preparati secchi e liquidi a base di piante officinali: venivano utilizzati per curare lievi disturbi che ben si adattavano all’utilizzo, come oggi un metodo di automedicazione. Nell’orto di Raymond, avevo cominciato a coltivare spezie ed erbe. Le conservavo in base all’uso che ne avrei fatto e ne estraevo le sostanze primarie mettendole in infusione in vino o grappa. Ormai la casa che Raymond mi aveva lasciato era diventato il mio laboratorio per esercitarmi con le tecniche appena apprese.
Imparai gli effetti che ogni pianta aveva sul corpo umano. Il biancospino era utile per curare i disturbi cardiaci lievi; la malva permetteva di curare il mal di gola e le infezioni boccali; la calendula per il trattamento delle piaghe o delle infiammazioni; il tiglio efficace per far abbassare la temperatura corporea e la febbre soprattutto per curare i bambini; la rosa canina, con una alto contenuto di vitamina C, ingerita con tisane e infusi, era efficace per prevenire o trattare i raffreddamenti e altre infezioni; la lavanda per curare disturbi di ansia o di nervosità; la mandragola con proprietà antidepressive, stupefacenti, eccitanti e narcotiche, indicata per problemi del sistema nervoso o della digestione. Quest’ultima radice fu la più curiosa da studiare. Vi erano legate molte leggende. Sapevo già delle sue capacità di favorire l’amore e la fecondità menzionate nel Cantico dei Cantici. Le leggende romane menzionavano l’esistenza di un demone che poteva essere risvegliato svellendo la pianta dal terreno, ma era una supposizione legata unicamente alla curiosa forma della sua radice: aveva un aspetto umano; di qui anche la leggenda sul pianto e sui suoi micidiali effetti. Era stata a lungo utilizzata come principale ingrediente per pozioni magiche, per riportare alle sembianze umane soggetti trasfigurati. Ma in realtà, la Mandragola, aveva unicamente proprietà tossiche e narcotiche.

Avevo scoperto anche l’esistenza di piante e radici con proprietà anestetiche e fortemente velenose. La cicuta: altamente tossica e in grado di paralizzare le terminazioni dei nervi motori e i centri midollari. Doveva essere utilizzata in piccole quantità se non si voleva indurre il paziente a morte certa. Altrettanto interessante fu studiare le proprietà della corteccia di salice. L’avevo già utilizzate senza conoscerne gli effetti, seguendo unicamente l’istinto, ma, alla Sorbonne, avevo scoperto che il suo decotto liberava una sostanze utili negli stati febbrili, nei dolori reumatici e muscolari e nei disturbi della gotta; era dotata, inoltre, di una forte azione astringente: favoriva la cicatrizzazione delle ferite. E’ quella che oggi chiamiamo volgarmente aspirina.
Le tele del ragno, invece, rappresentavano il migliore emostatico. Sia da sole, o bagnate nell’olio di scorpione, ponendole sulle ferite permettevano al sangue di coagularsi velocemente, in modo da accelerare il rimarginarsi delle ferite.
Fu interessante anche studiare la galenica, chiamata così per Galeno, medico ellenico.
Imparai molto da quest’arte, primo fra tutti come preparare un cataplasma. I cataplasmi secondo le esperienze dei miei colleghi, erano d’aiuto per molti problemi di salute, curava: orzaiolo, varici, ulcere, circolazione, dissenteria, scottature, punture d’insetto tracheiti e laringiti.

Le teorie di Galeno, erano interessanti, soprattutto per gli studi fatti sull’anatomia dei maiali.
Non potei far a meno di sorridere all’idea della sua teoria sui salassi. Si basava tutta su una sua ricerca: aveva scoperto il percorso di vene e arterie, e aveva supposto che il sangue si formasse al loro interno e che venisse influenzato dagli umori mefitici della malattia. Era arrivato alla curiosa conclusione che estraendo il sangue dal paziente infetto si estraesse anche il male.
Molti miei colleghi presero per buona la teoria per lungo tempo. Il mio olfatto, invece, fu in grado di percepire che non c’era alcun collegamento fra il salasso e la guarigione. Anzi spesso e volentieri la privazione di sangue incrementava il processo infettivo, e peggiorava la situazione. Eppure tenni per me i miei sospetti: attirare l’attenzione o dover spiegare il perché delle mie motivazioni era l’ultima cosa che desiderassi fare. Tenni conto però del fatto che avrei seguito la mia analisi, e avrei preso da Galeno solo quelle informazioni che, a mio giudizio, erano da reputare valide.
Non ritenevo giusto, infatti, prelevare il sangue ad un paziente in quantità sempre più massicce, quanto più grave fosse il male e non lo ritenevo saggio, soprattutto dato il mio handicap. E poi, privare le persone della loro linfa vitale non avrebbe mai giovato loro. Sottrarle fino a provocare un ictus era addirittura inumano. Era vero che la diminuzione di pressione che ne derivava poteva alleviare il dolore, o la febbre.
Ma i benefici erano senz’altro inferiori ai danni. Inoltre fin quando si utilizzavano sanguisughe, per estrarre gli umori, potevo ancora resistere. Era impossibile per me, riuscire a praticare un salasso a vene aperte. Una volta mi toccò assistere a questa tecnica.

Fu difficile per me: la sete si destò prepotente non appena il sangue si presentò alla mia vista e il suo odore arrivò dritto alle mie narici. Nonostante la notte prima avessi cacciato abbondantemente, il vampiro che ero cercava di prendere il sopravvento. In quel momento, portai alla mente il volto di Raymond e le parole che mi disse prima di morire. Riuscii ad assopire la bestia, con uno sforzo atroce e doloroso, impedendo al veleno di soffocarmi, sputandolo di nascosto. Immobilizzandomi nel meandro più buio della stanza, e sperando che i miei occhi, ormai miele, non tornassero rossi per la cupida sete.
Avrei tentato qualunque cosa, mi sarei conficcato le unghie nelle vene aride, pur di non permettere alla mia natura di rovinare tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel giorno. E resistetti.

Passarono così due anni dal mio arrivo a La Sorbonne, riuscii a estraniare i miei istinti, rendendomi inumano fra i vampiri.
Spesso tra un salotto e l’altro incontravo Jean - Baptiste, appena stato ordinato sacerdote. Mi raccontò che il vescovo gli aveva affidato la fondazione di alcune scuole parrocchiali per bambini nella sua città natale. Mi assicurò comunque che avrebbe continuato a girare tra i corridoi de La Sorbonne per conseguire il dottorato in teologia. Gli raccontai dei miei studi e dei progressi fatti fino a quel momento e che ormai la medicina aveva abbandonato le vecchie credenze lasciando il passo allo sviluppo delle teorie e l’attuazione delle prove pratiche. E il suo sguardo orgoglioso mi rese felice.

Cinque anni erano ormai passati dal mio arrivo a Parigi. Non mi ero reso conto di quanto avevo davvero imparato. Sapevo che non era abbastanza, che dovevo ancora studiare tanto per praticare l’arte medica, ma il passare del tempo non mutava il mio aspetto. Molti dei miei colleghi infatti si chiedevano come mai il mio volto non subiva l’effetto del tempo. Solo le occhiaie violacee che circondavano i miei occhi, donavano al mio viso una parvenza di stanchezza che in realtà non soffrivo.
In più alcuni con il loro acume avevano capito che in me c’era qualcosa di strano e di diverso e spesso li ritrovavo a chiedersi fra loro cosa potesse essere. Ero consapevole che non tutti erano capaci di accettare la mia vera natura, non tutti potevano essere come Raymond e Jean – Baptiste. Tutti gli altri erano come mio padre e i suoi seguaci. Avrebbero sicuramente puntato il dito contro di me, contro il male che incarnavo. Sulla base di quelle riflessioni, organizzai la mia partenza.
Sarei sicuramente tornato in Francia un giorno. Preparai i miei bagagli e radunai tutti i mie averi in una sacca. Sorrisi al ricordo del mio arrivo, quando avevo poche monete e solo due cambi d’abiti.
Misi i miei libri in un’altra sacca e avvolsi il mobilio con dei teli di cotone scadente. Indossai il mantello e mi coprii il capo. Avrei proseguito i miei studi in Italia in una delle accademie del Paese.

Con il ricordo di quegli anni nel mio cuore ormai morto, mi incamminai verso il Bel Paese.

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